Questa è una storia che mi raccontò Amelia Longhi Cesari nell’ottobre del 1991. A mente fresca pensai di scriverla. Nel 2011 la signora Amelia mi ha dato il permesso di pubblicarla.
L’Ospedale di Bentivoglio era conosciuto in tutta l’Italia del Nord per gli interventi del professor Pallotti. Venivano da Milano, Torino, Genova e andavano nelle camere laggiù in fondo, a pagamento. “Un de’ l’arrivè anch quel di biscut”, Colussi, e quando andò via lasciò la mancia persino in portineria. “L’ira tot un etar mond, un etar sistema ad lavurèr!”
Pensa che quando andai dentro io, nel ‘39, avevo quindici anni. Andai dalla Suora, e lei mi mandò dal Professore. Tremavo, perchè “alloura avevan sugezion”.
-” Professore, io vorrei venire a fare la pratica” -. Mi guardò dall’alto al basso e dal basso all’alto, poi disse: -” Va bene, ma ricordati: Niente Paga, niente paga, niente paga”-, per tre volte. E così per tre anni lavorai per niente; giusto per Natale la Suora arrivava con due arance in grembo.
Il Professore sembrava un generale: quando il portinaio lo vedeva in fondo al viale, arrivare in auto con il suo autista, avvertiva i reparti. I dottori correvano giù ad aspettarlo in portineria e si mettevano in fila sull’attenti. Poi uno dietro l’altro lo seguivano, prima nei reparti e dopo agli infettivi. Attorno al professore c’era sempre un gran silenzio. Al suo arrivo i parenti uscivano in fretta e lungo il corridoio si sentivano solo i passi che avanzavano per la visita.
Al reparto infettivi si accedeva dall’esterno dell’ospedale. I parenti che volevano visitare gli ammalati andavano su una scaletta in legno appoggiata alla finestra e li vedevano attraverso il vetro.
Il professor Pallotti, una persona molto severa e ligia al dovere, operava tutti i giorni dalle sette alle due-tre del pomeriggio, senza mai fermarsi. Non si poteva parlare né dentro, né fuori dalla sala operatoria, e le uniche cose che diceva erano: “Andino che è tardi, andiamo che è tardi, andiamo che è tardi”, sempre tre volte.
C’era una suora, Suor Furla che lo assisteva e si diceva che fosse diventata brava come lui. Il Professore avrebbe dovuto operarsi di ulcera ma non si fidava di nessuno. Solo dalla Suora si sarebbe lasciato operare.
Avevamo una tale paura del professore, che per non incrociarlo in corridoio ci nascondevamo dentro all’armadio, fin che non era passato. Eravamo in quattro infermiere in tutto il reparto, e per dare le ferie il professore ci disse che saremmo rimaste in tre. L’Amministrazione dell’Ospedale aveva pensato di non prendere nessun sostituto perché con i soldi risparmiati avrebbe comperato un ferro da stiro per la lavanderia.
Regnava una disciplina quasi al livello di una caserma, ma la gente lavorava con un grosso interesse. C’era una forte gerarchia: le praticanti, le infermiere, i dottori, la suora e il professore. Bisognava sempre ascoltare il professore, quasi con la testa china. Se un giorno c’era poco da fare, la suora faceva mettere a sedere qualcuna, che restava senza paga: questo per risparmiare. E con delle economie, a volte anche troppo eccessive, il bilancio tornava. Con questi metodi la medicina a Bentivoglio aveva fatto passi da giganti, e non c’è dubbio che la morte del professor Pallotti lasciò un forte vuoto nella chirurgia bolognese.